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''Talea era solo l’inizio'': Filippo Sisti torna con Spirits & Colori per rivoluzionare la mixology

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  • 3 Settembre 2025
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Questo articolo è stato scritto da Horeca News Italia. Clicca qui per leggere l'articolo originale

BAR, MIXOLOGY E COCKTAIL – Classe 1983, ex chef, Filippo Sisti è un bartender visionario. La prima volta che l’ho incontrato era il 2014. Lui aveva già un figlio e lavorava per Carlo Cracco in un locale di via Meda, a Milano, che sembrava uscito da un sogno post-industriale: Carlo e Camilla in Segheria. Io prendevo appunti, lui parlava di fermentazioni e di cucina liquida. 

Filippo Sisti oggi

Sono passati undici anni e nel frattempo Filippo è diventato padre per la seconda volta, ha aperto a Milano (e chiuso dopo un anno) Talea un bar senza bottigliera dove si bevevano solo le sue creazioni nel segno della cucina liquida, ha svolto consulenze (una tra tutte, nel 2022 ha curato l’apertura del bar del ristorante Il Circolino di Monza) e ricoperto il ruolo di brand ambassador per diverse aziende.

La novità è che dal primo settembre è diventato il responsabile del portafoglio Mixability per Spirits & Colori.
Che, detta così, suona come una roba da manager con cravatta e grafici.
E invece no. Filippo, nei locali, ci va. 

L’intervista

Filippo Sisti, dal primo di settembre sei entrato nel team di Spirits & Colori. Di cosa ti occupi ora, esattamente?
Gestirò tutto il portafoglio Mixability. Vuol dire portare in giro per l’Italia prodotti pensati per la miscelazione. Ma anche trovare idee nuove e fare ricerca e sviluppo. Farò formazione, guest shift, staff training. Tutto. Dalla teoria alla pratica.

Cosa intendi per staff training?
Se un locale, o un gruppo di locali, vuole crescere mi chiama. Io arrivo, preparo i ragazzi, insegno tecniche, parlo di distillati, costruisco cocktail. È one-to-one. È una formazione fatta bene, non una chiacchierata da bar.

Parliamo delle guest. Io ho l’impressione che ce ne siano troppe e che a volte siano inutili. Tu che dici?
Dico che se chi fa la guest non ha niente da dire, è tempo perso. Se Bar Mario invita Bar Luigi, che senso ha? È uno scambio tra amici, non un’idea nuova. Ma se chi arriva porta un punto di vista, un’identità, una visione, allora sì, ha senso.

Quindi è una questione di contenuto. O storytelling, se vogliamo essere pubblicitari.
Esatto. Ma ti racconto un aneddoto. Ricordi quando feci una presentazione da Talea con Disaronno? C’eri anche tu. Disaronno era completamente fuori contesto. Ma io l’ho fatto lo stesso, perché volevo dire qualcosa. E l’ho fatto usando quel prodotto nel food, non nei cocktail. Non era una marchetta.

Io mi sarei arrabbiata se fossi stata il brand! Tu no?
No, perché erano stati informati. Quelli di Disaronno sapevano il mio piano. Non ci siamo mai presi in giro.

Allora ti chiedo: perché vali di più degli altri, Filippo Sisti?
(Ride) Con tutta l’umiltà del mondo… Perché da quando è chiuso Talea, in Italia non si fa più innovazione seria. Nulla che ti faccia dire “wow”. Siamo stati i primi a usare la fermentazione, le garnish, le tecniche da cucina. Oggi vedo cose che facevo dodici anni fa. Ecco perché oggi mi sono staccato un po’ dal bar: non c’è più niente da dire.

E alle nuove leve cosa consigli?
Di mettere da parte il Rotavapor. E iniziare a studiare le materie prime. Sviluppare il palato. Capire il liquido, non l’etichetta.

Tecniche? Tu vieni dalla cucina. Che senso ha oggi usare certi strumenti da chef nel bar?
Le tecniche sono sempre quelle. Infusione, sciroppi, macerazioni. Il punto però non è la tecnica, è la testa. La differenza tra uno chef da tre stelle e uno da una non è nella padella: è nella velocità mentale. Servono visione, fantasia e concretezza.

A ottobre si terrà ad Hong Kong la cerimonia dei 50 Best Bars. Che cosa ne pensi?
Per me, è una classifica fake. È come Sanremo. Vasco arrivava sempre ultimo. Noi con Talea siamo stati citati dalla Michelin, ma non siamo comparsi nemmeno nei 500 top bar. Fa ridere. È una questione di sponsor, investimenti, relazioni. Non è un vero termometro del valore.

Ora, uno sguardo ai nuovi trend. Cosa pensi dei drink alla spina. Sei a favore?
Sì. Ma dipende dal contesto. In certi locali ha senso. In altri no. La gente vuole vedere il bartender lavorare, non il frigorifero pieno. È come un concerto in playback: non funziona.

Un’altra tendenza sono i drink low-alcohol…
Sì. Siamo nel pieno boom. Ma non raccontiamoci balle: in Italia la gente non sa ancora bere gli amari in miscelazione. Però ben venga. Io sono sempre stato un amante dei cocktail leggeri. 

I tuoi preferiti, quindi?
Gin Fizz e Daiquiri.

Quelli che non sopporti?
Martini, Old Fashioned, Manhattan. Mai bevuti.

Veniamo al tema social media. Quanto contano oggi?
Il 90%. Purtroppo, aggiungo. Ci sono bartender popolari su Instagram che poi, dietro al banco, non sanno neanche fare un Sour.

Tu i social li usi da tempo…
Sì, è vero. Per avere un seguito deve esserci un’idea dietro. TikTok premia il dibattito, la call to action. Se hai qualcosa da dire, funziona. Instagram è il social più seguito, con un pubblico eterogeneo. LinkedIn resta quello più serio.

Hai avuto anche un’agenzia che ti curava, giusto?
Sì. All’epoca collaboravo con brand come Vans e Panerai. Poi mi hanno hackerato il profilo. Fine del gioco. Il furto d’identità mi è costato ben 70 mila euro all’anno.

Due figli. Come concili questo lavoro?
Non lo so ancora. Ho iniziato due giorni fa. Andrò molto in giro e costruirò con il direttore marketing e commerciale Gabriele Rondani un calendario. Farò bene il mio lavoro, con la squadra.

Gestirai anche un budget?
No, sono già pessimo a gestire i miei soldi… non è il caso. Il budget resta nelle mani di Gabriele Rondani.

Userai i social per raccontare questa nuova avventura?
Assolutamente sì. 

Ci anticipi qualche novità in arrivo?
Non posso. Racconteremo tutto. Ma i dettagli… arriveranno più avanti.

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