“Mani in alto!” È quasi un grido di resa che arriva da certi ambienti del nostro settore, quando si parla del momento più basilare dell’esperienza in hotel: il check-in. Proprio l’altro giorno ci pensavo. Trentotto anni fa, riuscivamo a registrare un ospite in circa due minuti. Due minuti! Questo comprendeva il pagamento (con impronta della carta, niente POS) e la creazione della chiave elettronica.
E oggi? Ci viene detto che è una sfida colossale, nonostante tutta la tecnologia a disposizione. Il CEO di CitizenM ha dichiarato che la reception è “il problema più grande del settore alberghiero”. E dà la colpa a “19 sistemi diversi” che metterebbero in difficoltà il personale. Un po’ esagerato, no? Se c’è fila in reception, il problema non è il processo, ma la gestione della domanda. Bisogna conoscere il flusso degli ospiti e organizzarsi – con persone o tecnologia. Le code non sono un fallimento del sistema, ma di chi non ha previsto l’afflusso. E sì, ho fatto fila anche davanti ai totem. La tecnologia non salva tutto se la strategia è sbagliata.
La verità è semplicissima: dobbiamo sapere che il cliente è arrivato. Verificare la sua identità per ragioni di sicurezza. Assicurarci che possa pagare. E spesso è anche un obbligo legale. Che sia un sorriso, un’app o un chiosco, poco importa. L’importante è farlo. Non è opzionale.
“19 sistemi” per fare un check-in? È solo una scusa. Per decenni lo ha gestito il PMS: pagamenti, chiavi, camere, dati degli ospiti. Gli altri 16 sistemi a cosa servono? Se hai complicato tutto così, il problema non è il check-in: è l’architettura digitale.
Se il nostro modo di affrontare il contatto con il cliente è “arrangiatevi”, allora cosa resta del nostro lavoro? Se la reception diventa simbolo di resa, abbiamo smarrito il senso dell’ospitalità. Non è complicato. Servono uno o due sistemi ben connessi e una gestione intelligente dei flussi. Questo alzare le mani non è innovazione: è pigrizia.
La tecnologia è ovunque. Ma l’ospitalità parte dalle basi.
Mark Fancourt