Insulti, attacchi personali, minacce di morte. Il prezzo da pagare per dire qualcosa che mette in discussione lo status quo. Ma non è il futuro stile Terminator che fa paura, non è la singolarità tecnologica che spaventa. È la perdita del lavoro. Perchè il lavoro non è solo fonte di reddito, è identità. Ci presentiamo agli altri dicendo cosa facciamo, non chi siamo. Come alcolisti (non)anonimi.
La scorsa settimana, un trapper torinese (nome di battaglia: Tiaontheprod), mi ha scritto un messaggio illuminante nella sua grammatica dissonante: “Tolta la corrente, la tua carriera è finita e le tue buste di m*rda non ci saranno neanche più.”
La paura è questa: perdere rilevanza, perdere senso. Ma il punto è che questo processo è in atto da decenni. Il costo del lavoro umano è salito del 200% dal 1990, quello dei robot è sceso del 50%. Fate i conti. L’errore è vedere la disoccupazione tecnologica come un problema. È un’opportunità evolutiva. Un passaggio necessario per liberarci dal ricatto del lavoro, per smettere di misurare il nostro valore in base alla produttività.
Mi piacerebbe che mio figlio vivesse in una nuova (tecno)Grecia. Non seguendo le orme del padre, che lavora 15 ore al giorno, sei giorni su sette. Magari si si trasferirà ad Atene – fisica o virtuale che sia – e discuterà di Platone, di Aristotele e della eudaimonia, di Epicuro e della vera natura del piacere, di Eraclito e del divenire in un’era di macchine pensanti. In un mondo dove la libertà non è più un privilegio, ma il fondamento stesso della società.
Sarebbe bello, no?
SIMONE PUORTO