RISTORAZIONE – Ad Aquara, tra le pieghe dei Monti Alburni, oasi di pace e tranquillità immersa nel Parco del Cilento e del Vallo di Diano, palcoscenico di una natura selvaggia ed incontaminata la cui bellezza rapisce e lascia senza fiato, Bianca Mucciolo, giovane cuoca trentenne, nel ristorante di famiglia La Rosa Bianca porta avanti il suo progetto di cucina “autentica e di territorio” dove il cibo non è semplice nutrimento ma veicolazione di un messaggio più profondo, un messaggio che vuole essere cura per l’anima.
Erede di una cultura contadina che ha restituito nel corso dei secoli preziose tradizioni e prodotti della terra oggi vessilli dell’enogastronomia campana, dai ceci di Castelcivita al fagiolo di Controne, nel raccontarsi Bianca lascia immediatamente trapelare l’unicità del suo approccio, frutto di una spiccata sensibilità.
Le sue parole ricostruiscono i passaggi di una storia fatta di sacrifici ed evoluzione, quella che arriva come risposta agli scherzi del destino: “Se nella vita ti trovi a dover superare degli shock non ci sono alternative, o ti rompi o ti trasformi, come il vetro quando viene temprato, e questa trasformazione, dopo la morte improvvisa di mio padre e la separazione da mio marito, io l’ho proiettata in senso di appartenenza.”
Appartenenza e legame profondo rispetto alla sua terra, ai Monti Alburni, dei quali si sente al tempo stesso figlia e custode: “Ero sposata, avevo altro per la testa, volevo iscrivermi all’Università, dedicarmi alla moda. Ma all’improvviso, sette anni fa, l’orizzonte si è rovesciato ed è tornato prepotente il legame ancestrale con le mie origini, mia nonna, mia madre, gli insegnamenti di quando ero bambina. In questa trasformazione ho tolto le scarpe, camminato a piedi nudi nelle mie terre e ho compreso cosa fare”.
La scelta di mantenere in vita il ristorante che i suoi genitori avevano avviato nel 2009 arriva come risposta a qualcosa di inaspettato ma diventa così radicata da essere totalizzante.
Bianca aveva imparato fin da bambina, nel solco della cucina materna, cosa significa il contatto con la materia, il rispetto con cui si lavora e si trasforma, l’importanza dei gesti, del tempo, e della conservazione, quella sapienza che l’avrebbe potuta guidare in un’avventura della quale poteva essere a suo modo interprete. E la curiosità che da sempre l’ha accompagnata è ritornata prepotente, spingendola nuovamente nella ricerca e nello studio di quello che gli Alburni e non solo potevano offrirle in questo viaggio.
La Rosa Bianca diventa così il suo laboratorio alchemico a partire dalla lavorazione del pane per lei simbolo biblico di vita e rinascita. “Panifico con un lievito madre vecchio più di 30 anni, che si rigenera tempo per tempo, era di mia nonna paterna, lo condivideva con il vicinato, e io penso a tutte le mani che hanno preso da quel lievito la speranza di poter fare un buon pane.”
Con la madre allevatrice degli animali da cortile e i nonni impegnati nella cura degli orti la maggior parte di quanto viene servito è prodotto in casa, compresa la pasta realizzata con Grano Senatore Cappelli grazie ad un bando al quale Bianca partecipa nel 2022. Vincendolo riesce a strutturare un progetto di coltivazione e successiva trasformazione direttamente nelle sue terre (Progetto Triticum), un’opportunità colta anche in questo caso con impegno e sacrificio, estirpando 10.000 piante per reimpiantarne altrettante.
Nella sua cucina, dove territorialità e stagionalità sono solidi punti di riferimento, mette al centro soprattutto la dimensione vegetale di cui la Minestra Spersa, figlia di una tradizione centenaria, è la perfetta sintesi concettuale: un mix di erbe spontanee tra cui cicoria, cardo, cardone, bietole selvatiche, ortiche, punte di rovi e tarassaco ripassate in padella con pezzi di pane raffermo. Indimenticabili anche i suoi fagiolini a metro che come da usanza familiare Bianca frigge trasformandoli in una delizia assoluta e i legumi che rappresentano il fiore all’occhiello delle eccellenze locali.
E poi la pasta, i suoi cavati e il raviolo del quale racconta i segreti di una preparazione che richiede tempi molto, molto lunghi: “Si inizia al mattino presto, con la mungitura delle capre e solo nel pomeriggio la ricotta è pronta per poterli preparare, stendendo la sfoglia ottenuta con le uova raccolte nel nostro pollaio. E non sono nemmeno queste le ore sufficienti, per arrivare al risultato ci vuole un’intera vita – dice sorridendo – quella che mia madre ha impiegato per diventare una pastorella provetta, una allevatrice di animali da cortile, e quella che mia nonna ha dedicato all’elaborazione delle sue ricette.”
Per quanto ci sia un menu di riferimento Bianca preferisce lasciare spazio alla sua creatività, anche in base alla disponibilità di ciò che la terra restituisce giorno per giorno, e in questo i suoi clienti assidui la assecondano, fidandosi del suo estro.
Una cucina autentica quella di Bianca che arriva dritto al cuore: “Quello che metto nei miei piatti è un amore immenso, ed una tenera speranza nel futuro. Quando li porto in tavola arrivano insieme alla giornata di lavoro dei miei nonni che curano l’orto, di mia madre Marisa che raccoglie le verdure e cura gli animali, e alla mia che li creo. Vorrei che di quel piatto arrivasse l’energia viva che ti fa fare buoni pensieri, come quando accendi la luce che ti colpisce e ti sottrae al buio, perché, come dico sempre, il cibo buono, autentico, quello ancestrale e primordiale, cura l’anima.”
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