
Un resoconto piccolo piccolo.
Ciao, sono Emilio De Risi e questa è 21 Grammi di Turismo.
Racconto il mondo del turismo tra economia, etica, società e innovazione.
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Non pubblico da un po’ e torno con un numero fuori traccia su una destinazione del Nord. (E ne approfitto per salutare chi si è iscritto durante l’estate).
Quattro giorni sono pochi per descrivere un luogo. Valgono ancora meno se ci sei andato in vacanza e senza l’idea di preparare un pezzo.
Sono appunti sparsi su un taccuino a fine giornata: parole scritte male, ricostruite in un resoconto piccolo piccolo che vuole parlare a chi viaggia e a chi nel turismo lavora.
OSLO
È una città che va verso l’alto. Me ne accorgo subito. Esco dalla stazione, la Oslo S, e ho voglia di camminare: fino al mio albergo è un chilometro e mezzo e ho solo il bagaglio a mano.
Quando Møllergata finisce per passare la mano a Maridalsveien le gambe apprezzano la salita che mi risveglia dal viaggio. Mi giro e la vedo come in un cannocchiale: una strada gobbuta che scende, di certo verso il mare.
A Oslo S ci arrivo dall’aeroporto con un treno elegante e veloce; nel piazzale della stazione incrocio un uomo anziano che mangia un gelato. Un cremino. Faccio un passo e vedo una coppia, poi una ragazza poco lontano, tutti fanno la stessa cosa: mangiano un cremino. «Deve essere la passione del momento a Oslo» Mi dico. E mi si parano davanti due ragazzetti biondi e gentili con una scatola di cremini. Me ne offrono uno.
Esiste un benvenuto più bello? Batte tutte le politiche di marketing un cremino al tuo arrivo. Sulla confezione c’è il viso sorridente di una donna, scarto, poco distante vedo la stessa donna su un palco. È un comizio politico. Buono, ma sarà di sinistra o di destra questo cremino? Meglio non pensarci.
Alloggio in un hotel di catena, uno Scandic, mi piace provare marchi alberghieri nuovi anche se ormai ho la sensazione che tanti brand di città abbiano preso una direzione molto simile, nel design e nella gestione degli spazi. Camere e hall.
Ma dei dettagli mi colpiscono: i numeri delle camere sono in rilievo, accompagnati anche da una scritta in Braille: piccoli dettagli che fanno l’inclusività. (E mi torna in mente una chiacchierata fatta tempo fa con un grande viaggiatore non vedente).
È una città che verso l’alto. Salgo su un tetto che inizia già dalla strada, un largo corridoio bianco che ti porta su una piazza sopraelevata dove farti toccare dal vento, sorprendere dai colori che cambiano di continuo, e sì, anche guardare il panorama. L’Opera house è stata pensata così: un punto di incontro tra le persone e la cultura.
In un solo giorno incrocio tre matrimoni; le coppie escono dal Radhus, il palazzo del Comune in mattoni rossi e dallo stile funzionalista dove si tiene anche la premiazione del Nobel per la pace.
In giro ci sono tante coppie con bambini, e questi bambini hanno un sacco di spazi per giocare disseminati in città. E pur non avendo figli, non posso non notare che creano una bella atmosfera.
In una mattina incerta tra luce e nuvole, una famiglia scende sulla spiaggetta sotto l’Astrup Fearnley Museum Of Modern Art, quello progettato da Renzo Piano, parcheggiano il passeggino e fanno un bagno.
Penso all’acqua fredda, penso che quei bambini sono più tosti di me, penso che sviluppo turistico sano significa lasciare spazi ai cittadini anche nelle zone più alla moda e turistiche.
E poi vedo giovani ragazze con mazzi di fiori riposti in borsette di carta. E mi chiedo se li portano in dono quando vanno a visitare un amico, perché si usa così, o se amano avere i fiori freschi in casa.
È una città che va verso l’alto. Anche quando si visitano i morti. Vicino al mio albergo c’è il Vår Frelsers gravlund; il cimitero che ospita Munch e Ibsen non ha lo sfarzo prepotente di altri cimiteri monumentali, alcune tombe sono d’impatto, ma prevale un’uniforme eleganza.
Anche il cimitero si attiene alla regola cittadina: va in alto e in basso. Ho l’impressione che dei ragazzi lo usino come un viale da attraversare, una scorciatoia per andare da Akersveien a Ullevålsveien, e mi piace perché lo rende un posto più vivo.
Un’altra cosa che apprezzo del mio albergo è la colazione. In Norvegia è il pasto principale, ma per davvero, e io che amo calarmi nei panni locali mangio l’80% del cibo a colazione. Le cameriere hanno un’attenzione infaticabile: sparecchiano i tavoli, rabboccano le tazze di caffè, versano gli estratti di frutta, rimpiazzano uova a centinaia, portano il buonissimo salmone, puliscono decine di avocado.
Sono sazio, passeggio e penso che qui c’è un limite al lavoro. La domenica molti negozi sono chiusi, e la sera dopo le nove non devi dare per scontato che potrai mangiare ovunque.
Mi sembra che chi può farlo miri a un sacrosanto punto di equilibrio. Un equilibrio che ognuno cerca a modo suo, ma mi pare che spesso riguardi l’attività fisica.
La vedo passare lenta sotto i piedi e superare il ponticello dove sono affacciato: sulla tavola che scivola sull’acqua ci sono due gambe ben bilanciate e due braccia con una pagaia; quel corpo saldo punta verso l’Opera house e il Museo Munch.
Mi chiedo se è qui in vacanza o se Oslo è la sua città. E penso che è un lusso poterlo fare ogni volta che sei triste, vuoi staccare la spina, o solo divertirti.
Delle volte però la quiete si infrange. Nel quartiere Bjørvika noto due ragazze, sono sedute sui gradini di un piccolo molo e guardano il mare, nello spazio che separa le loro spalle si infila veloce un gabbiano e le sberleffa rubando il muffin dalle mani di una delle due. Qui i gabbiani sono sfacciati, ma lo interpreto come un segno di equilibrio tra il design del quartiere e la natura sempre forte e presente.
Arrivo fino a Sørenga Sjøbad perché sono curioso di vedere un molo che ha trasformato un angolo di mare in una spiaggia libera, curata e gratuita.
Sì, una spiaggia libera in uno dei posti più trendy della città.
Siamo sui diciannove gradi e il vento sferza. Non mi tufferei neanche pagato, ma c’è chi lo fa: vedo due ragazzi con i loro addominali scolpiti, il primo sale sulla pedana. Pluf. Fa un salto pulito. Sale il secondo, un enorme cobra tatuato gli occupa quasi tutta la schiena. «Come minimo fa un carpiato.» Penso. Il signor Cobra si tappa il naso con le dita e fa un tuffo a bomba. E mi scappa da ridere.
È un Paese che va verso l’alto. Poco prima di partire ritrovo una coppia che ho conosciuto a colazione. La donna si aiuta con un bastone, i capelli bianchi le mettono in risalto gli enormi occhi azzurri; il marito somiglia terribilmente a Richard Branson, il fondatore della Virgin. Sono una spigliata e socievole coppia di Cape Cod, negli Stati Uniti, e ci tengono a sapere perché un italiano sia a Oslo. «Mi piace il Nord.» Gli rispondo.
Stanno per prendere un taxi, voglio salutarli. «Tornate a casa anche voi?» Gli chiedo. «No, abbiamo in programma di risalire la Norvegia. Dovresti farlo anche tu».
«La prossima volta, magari».
È tutto, ci vediamo. Grazie.
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