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Alessio Anedda, direttore F&B Four Seasons Firenze. Una carriera da favola

  • Gianluca Miserendino
  • 29 Novembre 2024
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Questo articolo è stato scritto da Hoteldomani. Clicca qui per leggere l'articolo originale

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Un trentaduenne a capo della ristorazione di un cinque stelle flagship di Four Seasons non sembrerebbe una storia molto italiana, a prima vista. Eppure è quella di Alessio Anedda, professionista dell’ospitalità tricolore che il suo presente – però – è andato a prenderselo facendo il giro del mondo. Letteralmente: tra Miami e la Spagna, Shanghai e San Francisco, Orlando e Positano, per una biografia giovane ma già “da favola” iniziata – neanche a farlo apposta – dal mondo Disney che lo ha visto esordire come cameriere nei parchi della Florida. Dal Lago di Bracciano agli oceani, fino a tornare in Italia, Anedda è oggi direttore F&B del Four Seasons Firenze. Segno che forse anche in Italia possiamo, ogni tanto, far largo ai giovani anche nella pratica? Ce lo racconta lui.

Da dove inizia la sua storia professionale?
Da un anno trascorso ad Orlando, in Florida, subito dopo aver finito il liceo. Dopo un colloquio, ho scelto di fare il cameriere nel padiglione italiano di Disney World per dodici mesi. È stata un’esperienza faticosa, stimolante e decisiva, la prima fuori dall’Italia, che ha messo in moto la mia voglia di lavorare. Tanto che, una volta finito, non volevo più tornare in Europa, né allo studio. È stato mio padre a convincermi dell’importanza di non abbandonare il mio percorso formativo. Ho scelto Les Roches, con indirizzo alberghiero e imprenditoriale: due anni in Spagna, l’intermezzo di un internship a San Francisco – trascorso dividendomi tra il management in training e il lavoro per pagarmi l’affitto – e l’ultimo anno a Shanghai, dove ho imparato ad amare la cultura cinese, pur tra tanti elementi sfidanti.

Giramondo già a vent’anni.
Sì, viaggiare è nel mio DNA – anche grazie a mio padre pilota di aerei – così come l’entusiasmo verso le nuove opportunità. Una volta terminati gli studi, mi ha richiamato il mio ex capo alla Disney, Benito Savarin, per fare il restaurant manager in un ristorante italiano di Epcot. Sono andato senza neanche passare dall’Italia, attraverso il Pacifico, e ho lavorato un anno e mezzo in questo locale. Dopodiché, è stata l’apertura del Four Seasons di Miami a farmi cambiare di nuovo rotta.

Entra in gioco il suo attuale brand.
Sì, ho lavorato al pre-opening, scoprendo che si tratta di un’esperienza quasi mistica, per quanto è totalizzante e impegnativa. Il ristorante si chiamava Le Sirenuse, ed era frutto di una partnership con la famiglia Sersale, in Costiera amalfitana. Ho trascorso quindi due mesi a Positano per imparare l’autentica cultura del cibo e del servizio in Costiera: mi è sempre piaciuto rappresentare l’Italia come ambasciatore all’estero, ma nella maniera giusta.

Il training sul posto ha avuto successo?
Sì, il ristorante di Miami ha riscontrato grandi consensi, ed è lì che ho conosciuto Vito Mollica, F&B director ed executive chef del Four Seasons Firenze. Ed è stato lui a propormi, mentre già meditavo di trasferirmi al Four Seasons di Boston, di raggiungerlo in Toscana come restaurant manager. Ho accettato, anche se fino ad allora non avevo mai immaginato di tornare in Italia, dove del resto non avevo mai lavorato… Era il 2020, quindi a causa della pandemia sono tornato negli Usa a fare task force, di nuovo a Miami, dal momento che in Florida, nonostante il Covid, l’operatività dell’hotel si era intensificata. Tornato in Italia, e con Vito che aveva scelto altre strade, ho iniziato la mia carriera fiorentina, fatta di gavetta interna e di ruoli ibridi: F&B manager, assistant F&B director e poi, qualche mese fa, F&B director.

Un ruolo apicale a 32 anni. Un punto di arrivo?
Tutt’altro. Diventare direttore in una compagnia come Four Seasons è un privilegio ma anche un grande boost, che mi spinge a dare ancora di più e che mi convince che fermarmi non è assolutamente nel mio orizzonte.

Come interpreta il suo nuovo ruolo manageriale?
Sono molto team-oriented: lo staff, il well-being del cliente e dei dipendenti e la cura del dettaglio su entrambi i versanti, interno ed esterno. Coordino 150 persone – una piccola città – tra la cucina, con a capo l’executive chef, il servizio, gli eventi e il settore finanziario, della strategia e del marketing. Alcune delle mie giornate sono dedicate esclusivamente ai numeri, certamente, ma mi piace stare molto sul “floor”, sul campo con gli ospiti e lo staff. Negli altri settori non so se sia così, ma “Lead by example” è un motto ancora molto importante nella ristorazione e in hotel.

Tra le persone che collaborano con lei, una buona parte saranno più “anziane”, anche in termini di esperienza.
Sì, e mi piace raccontare un po’ la mia storia, per trasmettere lo stimolo a crescere e la necessità di essere concreti e consistenti. Anche se non sono la persona più intelligente del team, o la più preparata, ogni giorno vengo al lavoro e sono la proverbiale “goccia cinese”: essere costante in quello che fai cambia tutto.

Cosa consiglia a chi voglia intraprendere il suo stesso percorso?
Di imparare, senz’altro. Attraverso le scuole, certamente, se ci si sente di affrontarle. Ma anche attraverso le esperienze: io, per esempio, sento di aver appreso moltissimo dal lavoro quotidiano ad Epcot, dove ogni giorno servivamo duemila clienti. È necessario imparare certi meccanismi perché, come per un pittore, anche il talento più puro va nutrito di tecnica. Sul piano personale, poi, il consiglio è di essere costanti e pronti a prendersi dei rischi. La “goccia cinese” di cui dicevo, unita al non aver paura di “buttarsi”. Si può fare: io vengo dal Lago di Bracciano, e, anche se ho il doppio passaporto Italia-Usa e mio padre è un pilota – mentre mia madre è una casalinga – ritengo la mia una famiglia normalissima.

Qual è il tratto distintivo sul food and beverage di Four Seasons?
Vogliamo regalare esperienze uniche, ritagliate sui singoli ospiti, avendo sempre chiaro il senso e lo storytelling di ciò che facciamo. E gli elementi sono il servizio, l’engagement, l’autenticità local, la qualità del prodotto, la sostenibilità. Vogliamo essere eccelsi in ciò che proponiamo, anche nella semplicità: uno spaghetto al pomodoro non deve essere per forza impiattato nello stile di un due stelle Michelin. Ma deve essere la versione migliore possibile dello spaghetto al pomodoro. I nostri ospiti potrebbero permettersi persino hotel più costosi del nostro, ma qui cercano un’esperienza autentica, un interesse, un approccio personale che non si basi sulle biografie o sui portafogli.

C’è qualcosa che gli stranieri proprio non immaginano, della nostra enogastronomia?
Hanno poca consapevolezza della nostra geografia che pur essendo minuta contiene in sé differenze enormi dal punto di vista della cultura del cibo. E quando la raccontiamo, anche attraverso i piatti, ne restano affascinati. In fondo il nostro lavoro ha anche una bella funzione educativa. È anche per questo che di sera, allo stellato, non serviamo il cappuccino per nessuna ragione al mondo (ride) e proponiamo piatti stagionali in armonia con il ciclo naturale.

Qual è il piatto must per chi viene al Four Seasons di Firenze?
Un piatto strepitoso del nostro executive chef Paolo Lavezzini, col quale ho un rapporto splendido, è il Wellington di branzino, avvolto con fegatini, spinaci e tartufo nero. Viene servito con una tartara di guance del branzino, chips della sua pelle croccante e patate. È un’esperienza che consiglio a tutti.

Ha iniziato a diciotto anni a Disneyland come cameriere.
E oggi, che ne ha trentadue, è a capo della ristorazione del Four Seasons di Firenze. Doppio passaporto e radici sul Lago di Bracciano, Anedda racconta il valore della consistenza e il gusto per le nuove sfide.

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